Pubblicato da Daniele Rag. Scorrano
di Antonio Saccone
Avvocato - Funzionario della DPL di Pescara - Responsabile Affari Legali e del Contenzioso
Le considerazioni che seguono sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno in alcun modo carattere impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.
Introduzione
Dopo un lungo iter parlamentare, che è passato anche attraverso un rinvio alle Camere da parte del Capo dello Stato per il riesame di alcuni provvedimenti in essa contenuti, è stata definitivamente approvata la legge 4 novembre 2010, n. 183 ( il cd. Collegato lavoro).
La norma, che consta di 50 articoli, è stata pubblicata sul S.O. n. 243 alla Gazzetta Ufficiale n. 262 del 4.11.2010 ed è entrata in vigore in data 24.11.2010.
Il provvedimento contiene molte innovazioni in materia di lavoro, previdenza e legislazione sociale nonché misure contro il lavoro sommerso, modifiche in tema di accesso ispettivo, potere di diffida e verbalizzazione unica, di certificazione del contratto di lavoro, di apprendistato, di orario di lavoro, di contratto a tempo determinato ecc., ma forse la novità di maggior impatto per gli operatori del mondo del lavoro è la nuova disciplina fissata dall’art. 31, rubricato “conciliazione e ’arbitrato”.
In estrema sintesi, le innovazioni fondamentali al riguardo sono:
1) per effetto della riscrittura degli artt. 410 e 411 c.p.c., il tentativo di conciliazione che si svolge presso le Direzioni provinciali del lavoro (DPL) da obbligatorio diventa facoltativo; sul punto è di recente intervenuto il Ministero del Lavoro, che - in assenza di una disciplina transitoria nella norma - ha fornito alle proprie strutture territoriali le prime istruzioni operative con la nota del Segretariato Generale prot. n. 3428 del 25.11.2010;
2) a seguito dell’abrogazione degli artt. 410bis e 412bis c.p.c. nonché dell’introduzione dei novellati artt. 412, 412ter e 412quater c.p.c., viene prevista la possibilità della risoluzione arbitrale delle controversie attraverso la Commissione provinciale di conciliazione istituita presso la DPL, mediante forme arbitrali previste dalla contrattazione collettiva (oppure da contratti individuali, le cui clausole compromissorie siano state certificate da uno degli organismi a ciò preposti), nonché a mezzo dell’arbitrato espressamente disciplinato dalla legge all’art. 412quater c.p.c., come modificato;
3) infine, la definizione delle controversie individuali di lavoro potrà aversi anche tramite camere arbitrali, costitute ex art. 808ter c.p.c. presso gli organi di certificazione di cui all’art. 76 D.Lgs. 276/03 (Enti bilaterali, DPL, Province, Università pubbliche e private - comprese le Fondazioni, la D.G. Tutela e Condizioni di lavoro del MLPS, i consigli provinciali dei consulenti del lavoro).
Dunque, il nuovo sistema delle conciliazioni amministrative ridisegnato dal collegato prevede un (solo eventuale) tentativo di conciliazione presso la DPL, all’esito (ovvero nel corso) del quale viene consentita alle parti la possibilità - su base volontaria - di definire le controversie relative a rapporti di lavoro privati e di pubblico impiego con forme arbitrali varie, alternative al giudizio: l’obiettivo è quello di deflazionare l’attività giudiziaria in materia di lavoro.
Questo commento focalizzerà l’attenzione essenzialmente sul tentativo di conciliazione presso le Direzioni provinciali del lavoro e, dopo un excursus sulle modalità di espletamento dello stesso nel corso degli anni, cercherà di evidenziare le più significative modifiche intervenute in materia con il collegato lavoro, non tralasciando gli aspetti operativi della fase transitoria (dall’entrata in vigore della legge fino alla data di scadenza del regime di prorogatio delle Commissioni provinciali di conciliazione: 8.1.2011).
Come si è evoluto il tentativo di conciliazione presso la DPL
La conciliazione delle controversie di lavoro è una funzione istituzionale “antica” del Ministero del Lavoro, rinvenibile già nella legge 628/61, con la quale furono fissate le competenze del predetto Dicastero.
La materia è stata attraversata nel corso degli anni da una continua evoluzione normativa; le modifiche intervenute nell’ordinamento al riguardo sono state tante e fortemente innovative, con la conseguenza che si è registrato spesso anche un cambiamento dell’attività e del ruolo degli uffici preposti all’espletamento della funzione (in passato Uffici Provinciali del Lavoro e Massima Occupazione, oggi Direzioni Provinciali del Lavoro).
Per quanto attiene all’attività di conciliazione delle controversie individuali di lavoro privato, essa è stata svolta per molti anni con modalità che vedevano impegnato un singolo funzionario (una sorta di conciliatore monocratico ante litteram), il quale tentava la mediazione delle opposte posizioni rappresentate dalle parti.
E’ stato così dal 1961 fino all’entrata in vigore della legge 11 agosto 1973, n. 533 che istituì in ogni provincia, presso gli uffici periferici del MLPS, la Commissione provinciale di conciliazione.
Da quel momento, innanzi a tale organo collegiale fu previsto l’esperimento del tentativo di conciliazione di cui all’art. 410 c.p.c., tentativo che era facoltativo.
L’intenzione del legislatore della L. 533/73 era quella di realizzare un duplice obiettivo:
definire le controversie di lavoro in tempi rapidi e con costi ridotti;
deflazionare l’attività giudiziaria, con conseguente accelerazione delle cause in materia di lavoro.
Senonchè, il carattere facoltativo del tentativo in parola e le difficoltà di funzionamento che nel corso degli anni hanno incontrato le Commissioni di conciliazione (non disciplinate in maniera organica ed alle quali i componenti partecipano senza percepire alcun compenso, neanche sotto forma di gettone di presenza) hanno fatto sì che il buon esito dell’attività dipendesse essenzialmente dalla presenza o meno di “cultura conciliativa” nelle diverse realtà geografiche e/o dall’autorevolezza dell’esercizio del ruolo da parte della Commissione stessa.
In qualche provincia le cose non andarono male; tuttavia, complessivamente - a livello generale - si può dire che l’esperienza del tentativo facoltativo di conciliazione non funzionò e, soprattutto, non si realizzò quell’effetto deflativo che il legislatore si era proposto: anzi, all’inverso, in conseguenza della crescita del contenzioso dovuta allo sviluppo economico ed occupazionale, si verificò un “ingolfamento” delle aule giudiziarie ancora più consistente.
I tempi lunghi per la definizione delle questioni nonché il sovraffollamento delle aule giudiziarie, dunque, indussero il legislatore a ripensare il sistema delle conciliazioni amministrative in riferimento alle controversie individuali di lavoro.
Con il D.Lgs. 31.3.1998, n. 80 - entrato in vigore in data 23.4.1998 e successivamente modificato dal D.Lgs. 29.10.1998, n. 387 - si realizzò uno dei più significativi cambiamenti dell’ordinamento in materia: il tentativo di conciliazione previsto dall’art. 410 c.p.c. divenne obbligatorio.
Lo stesso D.Lgs. 80/98, altresì, innovò in tema di giurisdizione relativa alle controversie individuali di lavoro dei dipendenti pubblici che, con decorrenza 1.7.1998, passarono dalla giurisdizione del giudice amministrativo a quella del giudice ordinario in funzione di Giudice del lavoro.
Anche con riferimento a tali controversie, il legislatore - ragionando con l’intento di snellirne i tempi di definizione, che innanzi ai Tribunali Amministrativi Regionali erano quasi “biblici” e cercando di perseguire l’obiettivo del minor affollamento dei suddetti Tribunali - introdusse la previsione dell’esperimento di un tentativo obbligatorio di conciliazione, da svolgersi sempre presso gli uffici periferici del MLPS, non già innanzi la Commissione bensì davanti ad un Collegio di conciliazione, costituito di volta in volta per ogni controversia.
Pertanto, da un quadro normativo che si basava sull’esperimento del tentativo facoltativo di conciliazione, si passò ad un sistema per effetto del quale l’ordinamento giuridico contemplò l’obbligatorietà dello stesso, sia per rapporti di lavoro privati che per le controversie dei dipendenti pubblici.
Riguardo, poi, alla composizione degli organi collegiali di cui ci stiamo occupando, va evidenziato che la Commissione di conciliazione è istituita in ogni provincia: è presieduta dal Direttore DPL o da un suo delegato ed è composta in maniera paritetica da n. 8 rappresentanti dei datori di lavoro e da n. 8 rappresentanti dei lavoratori, designati rispettivamente dalle Associazioni datoriali e dalle Organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
Per la validità delle riunioni della stessa, tuttavia, è sufficiente la presenza di tre componenti: il Presidente, un rappresentante dei datori di lavoro e uno dei lavoratori.
Inoltre, in alcune realtà di particolare rilevanza ovvero per motivi di dislocazione geografica, possono essere istituite (come in qualche caso è avvenuto) sottocommissioni della Commissione Provinciale.
Il tentativo di conciliazione per controversie di lavoro di dipendenti pubblici, invece (ed è stato così fino all’entrata in vigore del collegato), si svolgeva innanzi ad un Collegio di conciliazione, presieduto dal Direttore DPL o da un suo delegato e composto da un rappresentante del lavoratore e da un rappresentante dell’Amministrazione datrice di lavoro.
Esso si costituiva di volta in volta per ogni controversia, variando dunque nella sua composizione a seconda delle designazioni intervenute, a differenza della Commissione di conciliazione che è, invece, permanentemente insediata e costituita dagli stessi membri.
Il Collegio di conciliazione per l’espletamento del tentativo nelle controversie dei pubblici dipendenti risulta oggi espressamente abrogato per effetto delle previsioni della nuova disciplina normativa.
Qualche indicazione, infine, va fornita in ordine alle modalità di esperimento dei due suddetti tentativi, così come risultanti dal quadro normativo di riferimento ante collegato.
Il tentativo di conciliazione innanzi la Commissione era, per così dire, “ a rito libero”, in quanto non esisteva alcuna disciplina particolare che ne regolasse l’espletamento; inoltre esso doveva essere esperito entro 60 giorni dalla sua attivazione e ciò costituiva condizione di procedibilità della domanda giudiziale.
Invece, il tentativo di conciliazione per le controversie dei dipendenti pubblici, che presentava un iter procedurale più complesso rispetto a quello delle controversie private, si esauriva con il decorso del termine di 90 giorni dalla sua attivazione, trascorsi i quali si rimuoveva la condizione di procedibilità della domanda giudiziale.
Entrambi i tentativi potevano concludersi:
con verbale di accordo, cui non si applicavano le disposizioni di cui ai primi tre commi dell’art. 2113 c.c., con la conseguenza che le intese realizzate erano immediatamente inoppugnabili e, se non rispettate - previo deposito - divenivano titolo esecutivo;
con verbale di mancata conciliazione;
con verbale di assenza/mancata costituzione di una o entrambi le parti .
Qualche considerazione sul tentativo obbligatorio di conciliazione (t.o.c.)
Come già detto, il tentativo obbligatorio di conciliazione fu introdotto nel nostro ordinamento essenzialmente con un intento deflativo, per evitare - cioè - l’eccessivo affollamento delle aule giudiziarie.
A distanza di diversi anni, tuttavia, a livello generale (anche se esistono situazioni in cui si sono realizzati buoni risultati grazie agli enormi sforzi compiuti da Presidenti e/o da componenti di Commissione), non si può che pervenire alla conclusione che l’obiettivo del legislatore del D.Lgs. 80/98 non si è realizzato.
Cerchiamo di analizzare e, se possibile, comprendere i motivi di tale risultato negativo:
a) in molte province, per gli eccessivi carichi di lavoro, la Commissione e/o i Collegi non riuscivano a rispettare i termini di legge (60/90 giorni) per il suo espletamento, con la conseguenza che la parte attrice presentava la domanda giudiziale senza averlo di fatto preliminarmente svolto;
b) in alcune realtà, anche perché non è previsto alcun tipo di compenso per i suoi componenti - nemmeno a titolo di rimborso delle spese sostenute (come già rilevato) - la Commissione non sempre raggiungeva il numero legale per la validità delle sue riunioni;
c) pur essendo previsto dalla legge che il giudice valutasse ai fini delle spese il comportamento tenuto dalle parti nel corso dello svolgimento del tentativo, molto frequentemente la parte convenuta - di solito l’azienda (o l’Ente) - sceglieva strategicamente di non presenziare al suo espletamento; il dato statistico nazionale di questo fenomeno è stato stimato intorno al 25% e cresce sensibilmente in riferimento ai datori di lavoro pubblici, rasentando il 50% per le Pubbliche Amministrazioni.
Ciò si verificava essenzialmente per due ordini di ragioni: in primo luogo, in alcuni casi l’azienda (o l’Ente) confidava nel fatto che parte attrice non desse un seguito giudiziario al tentativo stesso; altre volte, il datore di lavoro valutava conveniente ritardare i tempi di definizione (e quindi di pagamento) della questione oggetto di lite;
d) frequentemente il ruolo della Commissione e/o del Collegio veniva svolto in maniera “notarile”, nel senso che essi si limitavano esclusivamente a registrare le posizioni espresse dalle parti, non formulando proposte conciliative per la composizione della lite.
In conseguenza di tutto quanto sopra, il tentativo obbligatorio di conciliazione era di fatto divenuto soltanto un mero passaggio burocratico, che appesantiva piuttosto che snellirlo l’iter procedurale e che si attivava solo perché era obbligatorio farlo.
Con il collegato lavoro, dunque, si è preso atto del mancato raggiungimento dell’obiettivo che il legislatore si era posto ed è stato ripensato nuovamente il sistema delle conciliazioni stragiudiziali.
Come è cambiato il tentativo di conciliazione con il collegato lavoro
In primo luogo, ribadito che dalla data del 24.11.2010 tutti i tentativi di conciliazione in materia di lavoro, relativi a controversie private e di lavoratori pubblici, sono ritornati ad essere facoltativi, si segnala che l’unica eccezione è costituita dal tentativo di conciliazione inerente i rapporti di lavoro certificati dagli appositi organismi.
Per quanto riguarda eventuali controversie relative a tali rapporti, infatti, la proposizione della domanda giudiziale dovrà essere preceduta dall’attivazione del tentativo di conciliazione (che continua ad essere pertanto condizione di procedibilità dell’azione) innanzi l’organo che ha effettuato la certificazione; in tali casi, dunque, il tentativo rimane obbligatorio.
In merito va precisato che - come espressamente previsto dalla nota MLPS prot. n. 3428 del 26.11.2010 - il tentativo in parola dovrà essere effettuato con le modalità descritte nel nuovo art. 410 c.p.c. e che esso è obbligatorio non solo per le parti che hanno sottoscritto il contratto certificato, ma anche per i terzi interessati (es. gli enti: INPS, INAIL) che intendano agire in giudizio contro l’atto di certificazione.
Dunque, dal 24.11.2010 - ad eccezione delle controversie relative a rapporti di lavoro certificati - chiunque intenda agire in giudizio per una questione inerente il proprio rapporto di lavoro (pubblico o privato) non è più obbligato ad attivare il tentativo di conciliazione presso la DPL ed attendere i 60 ovvero 90 giorni per la proposizione del ricorso, ma potrà farlo direttamente, anche senza espletare alcun tentativo.
Inoltre, per effetto della espressa abrogazione degli artt. 65 e 66 D.Lgs. 165/01, scompare l’organismo deputato all’espletamento del tentativo di conciliazione per i lavoratori pubblici (il Collegio di conciliazione), con la conseguenza che - con il nuovo regime - se vi sarà volontà di attivare un tentativo di conciliazione per un rapporto di lavoro pubblico, dovrà anch’esso essere esperito innanzi la Commissione di conciliazione, che rimarrà dunque l’unico organismo collegiale preposto all’espletamento dei tentativi (facoltativi) in parola.
La Commissione di conciliazione, poi, cambia anche nella sua composizione: anzitutto, la sua presidenza potrà essere affidata, oltre che al Direttore della DPL o ad un suo delegato - come in passato - anche ad un magistrato a riposo: quest’ultima appare una previsione finalizzata a dare maggior prestigio ad un organismo che potrà essere chiamato anche a funzioni arbitrali.
Ma soprattutto, si modifica radicalmente il meccanismo di individuazione della rappresentatività sindacale nel suo seno: mentre in passato, infatti, la composizione della Commissione era basata sul criterio della rappresentanza comparativamente maggiore su base nazionale, la nuova normativa prevede che l’organismo debba comporsi delle organizzazioni ed associazioni comparativamente più rappresentative su base territoriale.
In tale ottica, in conseguenza dell’entrata in vigore della legge 183/2010, le Direzioni provinciali del lavoro dovranno procedere tempestivamente a rifare le indagini di rappresentatività sindacale su base territoriale, secondo criteri già a suo tempo indicati per la ricostituzione dei Comitati Inps.
La già citata nota MLPS n. 3428 del 26.11.2010 fornisce precise indicazioni alle articolazioni periferiche del Ministero del Lavoro, sostanzialmente disponendo da un lato che esse procedano alla ricostituzione delle Commissioni (e sottocommissioni) provinciali di conciliazione entro il termine di 45 giorni dall’entrata in vigore del collegato (ossia entro l’8 gennaio 2011), avendo ben presente che la rappresentatività sindacale va verificata non più su base nazionale ma a livello territoriale e, per altro verso, dando istruzioni per il prosieguo dell’attività delle stesse Commissioni in regime di prorogatio.
A mente del D.L. 293/1994, convertito nella legge 15 luglio 1994, n. 444 in regime di prorogatio gli organi collegiali (e, quindi anche la Commissione provinciale di conciliazione) possono adottare “gli atti di ordinaria amministrazione nonché gli atti urgenti ed indefettibili, con l’indicazione specifica dei motivi di urgenza ed indefettibilità”: non sembrano poterci essere dubbi, al riguardo, che le istanze presentante ed incardinate presso la Commissione di conciliazione siano atti di ordinaria amministrazione e, nel contempo, siano anche atti urgenti ed indefettibili, posto che è intervenuta una riforma dell’istituto che prevede un nuovo rito ed una nuova composizione dell’organismo.
Procedura per l’espletamento del nuovo tentativo di conciliazione
Il nuovo art. 410 c.p.c. prevede che “chi intende proporre in giudizio una domanda relativa ai rapporti previsti dall’art. 409 può promuovere, anche tramite l’associazione sindacale alla quale aderisce o conferisce mandato, un previo tentativo di conciliazione presso la commissione di conciliazione individuata secondo i criteri di cui all’art. 413” .
La richiesta del tentativo di conciliazione deve essere sottoscritta dall’istante e presentata alla Commissione di conciliazione presso la DPL a mano o con raccomandata ovvero inviata a mezzo e-mail certificata (resta escluso, per espressa scelta del legislatore, l’invio a mezzo fax).
Essa, poi, va inviata in copia anche alla controparte, la quale - se intende accettare la procedura di conciliazione - nei 20 giorni successivi alla ricezione della stessa, deposita presso la Commissione di conciliazione una memoria difensiva.
Traspare evidente, dunque, che solo se vi è il consenso di entrambe le parti contendenti potrà espletarsi il tentativo di conciliazione.
L’istanza di tentativo di conciliazione deve contenere una serie di elementi:
dati identificativi dell’istante e del convenuto, con l’indicazione dei loro recapiti o indirizzi o sedi;
il luogo dove è sorto il rapporto ovvero dove si trova l’azienda o una sua dipendenza alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale egli prestava la sua opera al momento della cessazione del rapporto (ciò evidentemente ai fini dell’individuazione della competenza territoriale ex art. 413 c.p.c.);
il luogo dove devono essere fatte alla parte istante le comunicazioni inerenti alla procedura;
l’esposizione dei fatti, delle rivendicazioni e delle ragioni poste a fondamento della pretesa.
Come visto, solo se intende aderire alla procedura conciliativa, controparte si attiverà mediante il deposito presso la Commissione di conciliazione di apposita memoria difensiva, contenente le eccezioni in fatto e in diritto nonché eventuali domande riconvenzionali.
A seguito di istanza di conciliazione di parte attrice ed a ricezione della memoria difensiva di parte convenuta, entro 10 giorni da quest’ultimo evento la Commissione fissa la comparizione delle parti con convocazione delle stesse per l’esperimento del tentativo di conciliazione, tentativo che deve essere tenuto entro i successivi 30 giorni (trattasi, tuttavia, di termini chiaramente ordinatori, non essendo legata alcuna decadenza al loro mancato rispetto).
Ove tutto ciò non avvenga, proprio per il principio di facoltatività del tentativo introdotto dal nuovo sistema, ciascuna delle parti sarà libera di adire l’autorità giudiziaria nei tempi che riterrà più idonei.
Al riguardo, tuttavia, deve ritenersi che - pur in presenza di un rito che prevede una cadenza temporale molto ben scandita e netta - se vi è consenso delle due parti contendenti il tentativo possa ugualmente svolgersi, anche se l’intervento del convenuto viene effettuato oltre il termine di 20 giorni e ferma restando comunque la possibilità per parte attrice di presentare il ricorso giudiziario.
Inoltre, a parere di chi scrive, tenuto conto comunque di un quadro normativo complessivo che tende alla deflazione dei contenziosi giudiziari, non sembrano esservi ostacoli alla definizione innanzi la Commissione di controversie per le quali siano già intervenuti accordi tra le parti, ovviamente previa richiesta congiunta delle stesse ovvero richiesta di attivazione di una ed adesione dell’altra parte.
Deve, altresì, darsi atto di due ulteriori indicazioni contenute nella più volte citata nota MLPS n. 3428 del 26.11.2010: la prima riguarda la rappresentanza del ricorrente e del convenuto, la seconda l’onere di verifica in capo alla DPL della presenza dei requisiti formali prescritti nelle istanze di tentativo di conciliazione.
In ordine alla rappresentanza del ricorrente e del convenuto, viene sottolineato che la delega a conciliare ed a transigere da ritenersi valida è solo quella rilasciata davanti ad un notaio o ad un funzionario della Direzione provinciale del lavoro, con esclusione delle autentiche dei Comuni e dell’avvocato che rappresenta il proprio cliente.
Questo sembra un ulteriore appesantimento dell’iter procedimentale, tenuto soprattutto conto del fatto che fino ad oggi le prassi sono andate spesso in direzione diversa.
Per quanto attiene, invece, alla verifica delle istanze di conciliazione, la DPL controllerà che la richiesta contenga i requisiti essenziali richiesti dalla nuova norma, avendo cura di chiederne l’integrazione qualora verificasse una qualche omissione o carenza.
Si precisa al riguardo che la totale mancanza degli elementi prescritti rende la richiesta improcedibile, a meno che controparte non si costituisca presentando le proprie memorie e quindi sanando le irregolarità; in tali casi la Commissione provvederà ad informare parte attrice affinchè proceda ad integrare la richiesta carente.
In conclusione, si può dire che il nuovo rito previsto per l’esperimento del tentativo di conciliazione è molto più complesso rispetto a quello contemplato dal sistema previgente: in buona sostanza, infatti, chi intende attivarlo deve predisporre un “mini-ricorso” e chi voglia aderirvi deve redigere un atto molto simile ad una comparsa di risposta.
E’ presumibile ritenere pertanto che tale circostanza, unitamente alla obbligatorietà della proposta conciliativa da parte della Commissione (di cui si dirà meglio appresso e che potrebbe risultare per la parte che non la accetta un peso non da poco in un eventuale giudizio, atteso che il giudice può valutare i motivi della sua mancata accettazione e tenerne conto ai fini delle spese e del giudizio stesso), determinerà una sensibile riduzione dei carichi di lavoro dell’organo collegiale in parola.
Modalità di redazione del verbale conclusivo dell’espletamento del tentativo innanzi la Commissione di conciliazione
L’art. 411 c.p.c. novellato dalla riforma prevede alcune modifiche rispetto al passato in tema di redazione di processo verbale conclusivo del tentativo; in dettaglio:
se la conciliazione riesce, anche limitatamente ad una sola parte della domanda, viene redatto processo verbale di conciliazione che deve essere sottoscritto, oltre che dalle parti, da tutti i componenti della Commissione (e non solo dal Presidente, come avveniva in passato);
se, invece, non viene raggiunto alcun accordo, la nuova norma sembra imporre alla Commissione di formulare una proposta alle parti per la bonaria definizione della controversia, proposta della quale deve darsi atto nel verbale finale, unitamente alle valutazioni espresse dalle stesse parti; delle risultanze di tale proposta, se non accettata senza adeguata motivazione, il giudice tiene conto in sede di giudizio. Le novità al riguardo sono: a) l’obbligatorietà della proposta, che nel regime previgente era prevista solo per i Collegi pubblici e non per i tentativi di conciliazione innanzi la Commissione; b) la previsione che il giudice ne possa tener conto ai fini del giudizio (e non solo delle spese, come era in passato), fermo restando ovviamente che il libero convincimento del giudice si forma comunque nel corso dell’istruttoria dibattimentale, con l’acquisizione dei mezzi probatori forniti dalle parti;
la nuova norma (art. 411, ultimo comma), poi, seppur in maniera più articolata, riprende il concetto dell’esonero da qualsiasi forma di responsabilità civile, amministrativa, contabile e disciplinare, fatti salvi i casi di dolo o colpa grave, per i soggetti che rappresentano le pubbliche amministrazioni nei casi di adesione alla proposta conciliativa della Commissione; questo può essere uno strumento di gestione del contenzioso pubblico, per sanare ad esempio errori e/o mancati riconoscimenti, senza ricadute sugli agenti della p.a..
Esecutività del verbale di accordo, tentativi di conciliazione in sede sindacale e tentativo di conciliazione alla prima udienza
Nessuna modifica, invece, è intervenuta sia in ordine all’esecutività del verbale di conciliazione sottoscritto innanzi la Commissione (che il giudice rende esecutivo con decreto, in caso di mancata ottemperanza, su istanza della parte interessata) che in tema di tentativi di conciliazione svolti in sede sindacale, cui non si applica la nuova procedura dell’art. 410 c.p.c. e per i quali restano invariate le modalità di deposito presso la DPL e presso la cancelleria del Tribunale, riscritte come in passato al comma 3 del nuovo art. 411 c.p.c..
Deve infine darsi atto delle nuove modalità di esperimento del tentativo di conciliazione di cui all’art. 420 c.p.c., quello cioè svolto in prima udienza davanti al giudice; esso si arricchisce di una nuova previsione, la formulazione della proposta conciliativa da parte del giudice stesso, cui sembra volersi assegnare una forte valenza deflativa, laddove viene previsto che “il rifiuto della proposta transattiva del giudice, senza giustificato motivo, costituisce comportamento valutabile dal giudice ai fini del giudizio”.
Fase transitoria
La nuova normativa in materia di conciliazione non prevede disposizioni di carattere transitorio: con buona solerzia, con la predetta nota n. 3426 in data 26.11.2010 il Ministero del Lavoro è intervenuto al riguardo, fornendo istruzioni operative alle proprie articolazioni periferiche per la gestione della fase transitoria.
Come già detto, l’attività delle Commissioni continuerà in regime di prorogatio fino alla data dell’8 gennaio 2010 (45 gg. dopo l’entrata in vigore della legge 183/2010) e fino a tale data seguiterà la trattazione delle istanze di conciliazione presentate entro la data del 24 novembre 2010.
Più precisamente: per le istanze proposte prima del 24 novembre 2010, evidentemente con il vecchio rito, tanto nel caso in cui siano state già oggetto di convocazione che nell’ipotesi di fissazione della data di convocazione non ancora intervenuta, le Commissioni - per il tramite dei funzionari della DPL preposti all’attività - dovranno informare le parti circa l’intervenuta non obbligatorietà del tentativo e della possibilità di portare comunque a termine il tentativo avanti la sede adita, al fine di pervenire ad una conciliazione, che avrà in ogni caso l’efficacia di cui all’art. 2113 c.c..
Ovviamente, se interverrà consenso di entrambe le parti, l’esperimento del tentativo proseguirà e dovrà concludersi entro l’8 gennaio 2011; in caso di mancato consenso, invece, il tentativo si interromperà e la parte che vi ha interesse potrà proporre azione giudiziaria finalizzata alla tutela dei propri diritti, senza espletarlo.
E’ di ogni evidenza, invece, che le richieste presentate dopo la data del 24 novembre 2010 andranno assoggettate al nuovo rito, con la conseguenza che saranno trattate dalla Commissione solo se vi sarà consenso manifesto di entrambe le parti con le modalità previste dal novellato art. 410 c.p.c. descritte in precedenza.
Infine, per quanto riguarda le controversie dei pubblici dipendenti, atteso che - per effetto dell’abrogazione dell’art. 66 D.Lgs. 165/01 - i collegi preposti all’espletamento del tentativo cessano ope legis la loro attività, se le parti vorranno proseguirle dovranno farlo innanzi la Commissione di conciliazione.
A tal fine, i presidenti dei collegi pubblici abrogati (il direttore DPL o un suo delegato) dovranno comunicare agli altri membri ed alle parti la circostanza e chiedere l’acquisizione del consenso di queste ultime alla prosecuzione del tentativo.
Da ultimo, si ritiene utile evidenziare un possibile profilo problematico che potrebbe incontrarsi in questa fase transitoria: se è intervenuta la proposizione di una domanda giudiziale in vigenza di tentativo obbligatorio di conciliazione (prima, dunque, del 24 novembre 2010), senza che lo stesso sia stato esperito, il giudice adito - a norma dell’art. 412bis c.p.c vigente ante collegato lavoro - deve correttamente sospendere il giudizio e fissare alle parti un termine per l’esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione innanzi ad un organo collegiale che per legge non ha più quella competenza.
In tali casi, il Ministero suggerisce alle proprie strutture di non dichiarare improcedibile tali tentativi ma di espletarli, anche se le Commissioni dovranno applicare nel loro esperimento un rito non più vigente.
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