L'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori prevede che il giudice, qualora annulli un licenziamento (per esempio, perché intimato senza giusta causa o giustificato motivo, oppure perché discriminatorio o intimato a voce), ordina la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro. Inoltre, nello stesso caso, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno, nella misura della retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello della effettiva reintegrazione, oltre al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali; in ogni caso, l'indennità dovuta a titolo di risarcimento del danno non potrà essere inferiore a cinque mensilità.
Peraltro, l'art. 18 S.L. è applicabile solo ai datori di lavoro, imprenditori o non imprenditori, che abbiano alle proprie dipendenze più di quindici dipendenti nell'unità produttiva in cui è avvenuto il licenziamento, ovvero nell'ambito dello stesso comune (il numero dei dipendenti è ridotto a più di cinque se il datore di lavoro è un imprenditore agricolo); inoltre, la norma in questione è applicabile ai datori di lavoro che occupino, complessivamente, più di sessanta lavoratori.
La recente riforma introdotta dalla legge n. 108 del 1990 ha anche considerato l'ipotesi che il lavoratore, reintegrato a seguito di un illegittimo licenziamento, preferisca rinunciare al posto di lavoro. L'ipotesi è disciplinata dall'art. 18 c. 5 dello Statuto dei Lavoratori, così come modificato dalla citata L. 108/90. Più precisamente, la legge prevede che il lavoratore, a seguito dell'ordine di reintegrazione formulato dal giudice, opti per la risoluzione del rapporto in cambio di una indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto. In altre parole, il lavoratore ha la facoltà di domandare al datore di lavoro, al posto della reintegrazione, la somma ora indicata, che andrà ad aggiungersi a quella già liquidata dal giudice a titolo di risarcimento del danno e di cui si è già detto.
Tuttavia, il lavoratore deve esercitare tale facoltà nel termine tassativo di trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza. In ogni caso, fino a quando l'opzione non sia stata esercitata, il lavoratore ha diritto alla retribuzione dovuta a far tempo dalla sentenza di reintegrazione. La Corte di cassazione ha precisato che la retribuzione è dovuta anche nel caso in cui il lavoratore non ottemperi all'invito, rivoltogli dal datore di lavoro, di riprendere servizio (sentenza n. 6494 del 7/6/91); a tale riguardo, si tenga però presente che, se entro trenta giorni dall'invito il servizio non viene ripreso, il rapporto è automaticamente risolto senza diritto ad alcuna indennità.
Inoltre, la Corte Costituzionale (sentenza n.291/96) ha affermato che la facoltà insindacabile di monetizzare il diritto alla reintegrazione in una prestazione pecuniaria di ammontare fisso, attribuita al lavoratore dal 5° comma dell'art. 18 S.L., non può essere vanificata dalla revoca del licenziamento da parte del datore di lavoro, nel corso del giudizio avanti l'Autorità Giudiziaria; tale revoca infatti non può giungere ad effetto se non vi è accettazione del dipendente.
Fonte: Dielle on line, Rivista telematica di diritto del lavoro
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